L'agricoltura intensiva

La traformazione del paesaggio agrario

Dal punto di vista agricolo l'Italia vanta una straordinaria varietà di situazioni, derivate dalla varia morfologia del territorio, dalla multiforme situazione climatica, dalla complessa storia delle civiltà che si sono succedute nel suo territorio e che hanno portato gli uomini a contendere la terra alla vita selvatica dal piano alla montagna, dalle Alpi alle isole siciliane.

Si può dire che non esista angolo del territorio che non sia stato interessato in qualche misura dall'attività agricola e zootecnica dell'uomo: i prati alpestri sono pascolati fino al limite delle nevi perenni, altrettanto avviene nell'Appennino, mentre i terrazzamenti in pietra si arrampicano fino all'orlo dei vulcani e nelle più pietrose isole tirreniche. A poca distanza l'una dall'altra convivono l'agricoltura industrializzata, meccanizzata e chimicamente dipendente, e l'agricoltura tradizionale e marginale, di  pura sussistenza.

Alla fine del secolo scorso, caratterizzato dal tumultuoso sviluppo del settore industriale e del terziario, dal progressivo inurbamento delle popolazioni rurali, dallo spopolamento delle aree marginali dal punto di vista produttivo (la collina e la montagna) e da profonde trasformazioni nel mercato dei prodotti agricoli, l'agricoltura italiana ha attraversato una profonda crisi.

Ciò si è concretizzato nella diminuzione della popolazione agricola, nella scomparsa del piccolo agricoltore e nella trasformazione del paesaggio agrario (foto G. Carotti) attraverso l'intensificazione dei sistemi di sfruttamento in alcune aree e la marginalizzazione e l'abbandono delle colture in altre.

Paesaggio agrario (foto G. Carotti)

Considerata l'ampiezza della superficie agricola, tali fenomeni non possono non avere profonde influenze sulla situazione ambientale nel suo complesso e sulla flora e sulla fauna in particolare, legate agli ambienti agricoli attraverso un millenario processo di adattamento.

Il 50% della biodiversità animale e vegetale in Italia è oggi contenuto o dipende in qualche misura dalle zone agricole estensive che sono ancora un elemento importante del paesaggio italiano, rappresentando circa il 50% della superficie agricola totale ed essendo localizzate prevalentemente nelle aree collinari e montane.

Così, in Italia come in Europa, la conservazione del paesaggio agrario tradizionale è diventata oggi uno dei temi centrali della nuova politica ambientale europea, fatta propria dalle Associazioni Non Governative e dagli organismi dell'Unione Europea che hanno varato una serie di significativi provvedimenti (da Set aside al Regolamento 2078) per vincolare la riduzione delle produzioni agricole ad un miglioramento qualitativo degli ecosistemi coltivati.

Il mantenimento e possibilmente il miglioramento del ruolo dei sistemi agricoli per la conservazione della biodiversità presuppone:

  • incrementare l’estensione delle aree interessate dai regimi di riposo e di naturalizzazione sostenuti da provvedimenti comunitari;
  • legare la salubrità delle produzioni agricole (agricoltura biologica e organica) alla salubrità e complessità dell’ambiente e del paesaggio agricolo, fatto non del tutto scontato (in teoria un salubre prodotto biologico potrebbe venire anche da una coltura in serra che ha un ruolo del tutto negativo per la conservazione della biodiversità).

Il declino nella varietà degli organismi non è un fenomeno che interessa solo le popolazioni selvatiche, ma tocca in misura drammatica anche le varietà di piante coltivate e di animali addomesticati. Prima della seconda Guerra Mondiale in Italia venivano coltivate 400 varietà di grano, oggi ne restano solo poche decine. Di 40 varietà di crocifere (come ad esempio il cavolo, la rapa, il ravanello e la rucola che spesso sono presenti sulle nostre tavole) solo 5 sono oggetto di coltivazione mentre l'80% delle mele prodotte appartiene a 3 cultivars.

Ancora oggi non esiste un'organica legge a tutela del paesaggio e dei suoi elementi, valida per i privati come per le amministrazioni pubbliche, e le stesse norme che impongono la valutazione di impatto ambientale per una serie di grandi opere sono estremamente vaghe, parziali e spesso redatte con l’attenzione al dettaglio senza tener conto della situazione territoriale complessiva. Di conseguenza fuori delle aree protette e vincolate è possibile abbattere alberi e siepi, interrare stagni, dragare fossi e fiumi, banchinare corsi d’acqua, eliminare arbusteti, dissodare incolti, rimboschire terreni con essenze vegetali di qualsiasi origine, recintare superfici anche vaste con sistemi di recinzione decisi in base a criteri esclusivamente economici o pratici.

Anche l’amministrazione pubblica si comporta nella più completa ignoranza di quegli accorgimenti che se applicati consentirebbero di conciliare la funzionalità del progetto dell’uomo (ad esempio la resa delle colture, la praticabilità e la sicurezza di una strada, la portata e la dinamica stagionale di un corso d’acqua, la chiusura di un fondo) con la conservazione delle nicchie ecologiche e della continuità territoriale:

  • è necessario diffondere una cultura del paesaggio, anche per i cosiddetti paesaggi minori rurali e suburbani recuperando quelle tecniche dell’ingegneria naturalistica largamente impiegate all’estero ad esempio per consolidare le scarpate, sistemare le rive di un corso d’acqua o di un bacino, delimitare una strada, recingere un fondo senza precludere alla piccola fauna le possibilità di spostamento;
  • è necessario recuperare la complessità e la naturalità dei territori disturbati, attraverso le norme, l’educazione degli amministratori e delle figure professionali. E’ un’impresa grande, ma una volta affermato il concetto che l’uomo può continuare a svilupparsi nel territorio conservando e recuperando il suo valore naturale, il passo dovrebbe essere quasi automatico.

Il concetto chiave è senza dubbio questo: "gestione non intensiva", una qualità venuta meno per la maggior parte delle aree d’Italia. All’abbandono di molte delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali si è infatti accompagnata una radicale modifica delle tecniche di coltivazione, di allevamento, di gestione delle foreste. Alla rotazione delle colture, al mantenimento di elementi “marginali” quali arbusti e siepi, si è sostituita l’agricoltura intensiva gestita con mezzi meccanizzati e legata ad un abbondante uso di pesticidi e fertilizzanti. Sempre più rari nella forma tradizionale, gli allevamenti sono stati spostati al chiuso, nel fondovalle; i pascoli sono stati abbandonati a loro stessi ed il bosco sopravanza. Le tecniche di sfruttamento intensivo del legname hanno fatto venir meno molte delle formazioni ambientali necessarie per la costruzione del nido degli uccelli, per l’alimentazione, ecc. E’ evidente che la salvaguardia delle attività residue non potrà, da sola, essere sufficiente per il ripristino degli equilibri ecologici. Si delinea quindi la necessità di un deciso sostegno per il recupero o il ripristino delle pratiche tradizionali.

Non tutte le attività umane producono un impatto negativo sugli ambienti e sulle specie che li abitano; al contrario, in alcuni casi, animali e piante sono avvantaggiati dalla presenza dell'uomo. L’esempio più importante è quello degli ambienti agricoli, ma si possono citare anche gli ambienti aperti alpini o quelli misti mediterranei; campi modellati per secoli dal lavoro dei contadini, pascoli destinati alle attività di allevamento, boschi e radure che si alternano come conseguenza di una gestione non intensiva del patrimonio forestale.