Il borsino delle specie

Chi sale e chi scende

Il progredire delle indagini e l'istituzione di una rete di monitoraggio piuttosto approfondita, almeno per alcune aree geografiche e per alcuni gruppi di animali, permette di verificare le tendenze nel medio termine, in particolare nell'ultimo ventennio (1993-2013), quando si sono verificati una serie di fatti importanti che hanno permesso alla grande fauna di occupare areali molto più vasti rispetto ad un passato anche lontano.

I lupi, per esempio, sono comparsi nelle Alpi occidentali negli anni Ottanta e si sono moltiplicati. Il primo lupo (M.Branchi/Panda Photo) che negli anni Ottanta ha messo piede nelle Alpi, per la precisione nell’estrema porzione occidentale della catena, ha fatto scalpore suscitando una generale curiosità e nessuna preoccupazione, il secondo qualche apprensione, il terzo ha scatenato la reazione. Così i francesi, e poi gli svizzeri, hanno deciso che di lupi, nelle loro montagne, non ce ne devono essere: se li tenessero pure gli italiani, visto che i lupi alpini hanno un pedigree abruzzese, come è testimoniato dalle analisi del DNA. Del resto gli italiani, prova ne è l’antico mestiere dei lupari, i bounty killers di lupi che hanno operato in Appennino fino agli anni Sessanta, da sempre convivono con i lupi e li tollerano come si tollerano la grandine, la nebbia, la siccità. Così i lupi dell’Abruzzo, che, dopo quasi due secoli di assenza, sono riusciti ad arrivare fino alle Alpi francesi passando sotto i viadotti e sopra le gallerie dell’autostrada Genova – Ventimiglia , sono stati accolti da un fuoco di sbarramento e sono stati costretti a ripiegare in Italia.

Lupo (M.Branchi/Panda Photo)

Questi predatori, che solo sulle Alpi occidentali italiane sono almeno centocinquanta e stanno insediandosi anche in provincia di Bolzano, comunque sono solo la punta dell’iceberg di un impressionante fenomeno di recupero della grande fauna che sta interessando tutta la catena montuosa e che sta facendo vivere momenti di gloria a quella che gli studiosi definiscono l’ecoregione alpina. Oggi ce ne sono almeno 150 esemplari, e non ci sono solo loro.

Sulle Alpi non ci sono mai stati tanti animali come in questi anni, o almeno così sembra. Cervi, caprioli, cinghiali scendono addirittura in pianura e bussano alla porta delle città. Gli avvoltoi degli agnelli (M. Branchi/Panda Photo) veleggiano con i loro tre metri di apertura alare dalle Marittime allo Stelvio, dopo quasi un secolo di assenza.

Avvoltoi degli agnelli (M. Branchi/Panda Photo)  

L’ultimo di questi rapaci era stato ucciso nel 1913 in val di Rhemes e c’è stato bisogno di trent’anni di attività di un consorzio di zoo e associazioni austriache, tedesche e svizzere per riportarlo nella sua antica patria. Ma una volta aperte le voliere, i grandi uccelli non si sono fatti pregare per riprendere possesso di rocce e ghiacciai, tornando a fare quello che hanno sempre fatto: smembrare le carcasse degli animali travolti dalle valanghe.

Gli orsi bruni, prelevati dalle foreste della Slovenia e liberati nel parco trentino dell’Adamello, hanno raggiunto l’Austria e la Germania e lì sono stati abbattuti perché ritenuti dannosi e pericolosi. Dei cervi non si tiene più neanche il conto: solo 40 anni fa erano un’esclusiva tutta straniera, oggi rappresentano una minaccia per boschi e colture in Trentino, in Lombardia e in Piemonte, tanto che il parco nazionale dello Stelvio ha deciso di eliminarne una quota consistente per ripristinare l’equilibrio ecologico compromesso dal proliferare di questi grandi animali erbivori, che non fanno distinzione fra arbusti selvatici, granturco, meli e peri. Non è stata una decisione facile e, nonostante la pianificazione dell’operazione che prevede l’abbattimento di circa 150 cervi l’anno, sono divampate le polemiche fra animalisti e responsabili del parco.

Se da una parte aumenta la grande fauna (cervi, cinghiali, lupi, avvoltoi, linci), dall’altra scompare a ritmo crescente una moltitudine di piante e animali della cui esistenza pochi si rendono conto. Chi si preoccupa della pernice bianca o del piviere tortolino, della salamandra nera o del proteo?

Fanno meno effetto dell’orso, del lupo, del camoscio, dello stambecco e dell’avvoltoio. La differenza è che lupo, orso, cervo e avvoltoi, per quanto grandi e bisognosi di spazio hanno esigenze meno specifiche della salamandra, del proteo e del piviere tortolino, perché si adattano a vivere in diversi luoghi, approfittando del bestiame domestico e delle colture. Al contrario salamandre, ululoni (un piccolo rospo) (foto G. Carotti), sassifraghe, pernici bianche (S.Meyers/Panda Photo), protei e rosalie alpine vivono in spazi molti più angusti, definiti nicchie ecologiche.

Ululone (foto G. Carotti) 

Pernice bianca (S.Meyers/Panda Photo)

Il proteo, per esempio, è una salamandra priva di occhi che vive solo nelle acque fredde e ossigenate di un torrente sotterraneo, con una temperatura inferiore ai dieci gradi e buio perenne. Se la temperatura salisse di qualche grado, o l’acqua venisse inquinata da uno scarico o una luce fosse accesa nella grotta per mostrare le stalattiti ai turisti, il proteo sarebbe finito e la biodiversità segnerebbe meno uno. I candidati all’estinzione nelle nostre regioni sono migliaia, mentre le specie che aumentano sono poche decine, ma di grande peso e impatto mediatico.